(2008)
Il cinema orientale è stato saccheggiato in lungo e in largo dall’occidente (va detto che agli inizi la cosa è stata reciproca), ma c’è una cosa che nessun occidentale è mai riuscito a riprodurre, ovvero la sensazione di pace che certi cineasti dell’estremo oriente sanno trasmettere. Per quanto grande possa essere un regista occidentale, può riuscire a omaggiare Takeshi Kitano o Park Chan-wook, persino il mio amatissimo Kurosawa (forse tra i più saccheggiati della storia, e vorrei ben vedere…), con grandi storie d’avventura, iperviolenza, vendette atroci, ma non ho mai visto, e sottolineo “MAI”, un occidentale riuscire a rendere sul grande schermo la sensazione di quiete e di comunione con il mondo che sanno ispirare alcune pellicole dell’est estremo, tra cui “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera” di Kim Ki-duk o, appunto, “Departures” di Yōjirō Takita.
Avete presente la sensazione, mentre osservate/ascoltate un’opera, che sia un disco, che sia un concerto, un film o una qualsiasi altra emanazione dell’arte, di rendervi conto che tutto sia esattamente al proprio posto? Che non ci sia nemmeno la più piccola sbavatura? Ecco, questa è la sensazione che ho provato guardando (più volte) Departures. E’ semplicemente perfetto. Parlando di morte, riesce a trasmettere fiducia nella vita e negli esseri umani e lo fa puntando sul registro ironico e grottesco. Facendoti pensare costantemente a cose, diciamocelo, piuttosto spiacevoli, riesce a farti dire: “Va bene, non c’è problema, la vita è comunque degna di essere vissuta, gli ostacoli si superano, la morte è naturale e deve essere una parte fondamentale della vita che va accettata, fino ad allora godiamoci tutto quello che la vita può dare.”. E, badate bene, non sto parlando di “Chi vuol esser lieto sia…” e baccanali annessi e connessi. Ogni singolo fotogramma esprime una calma, un’intelligenza e una consapevolezza così tipicamente orientali, che (scusate ma non trovo parole più adatte) spaccano veramente il culo ai passeri.
Nei primi 15 minuti abbiamo una famiglia in lutto che accetta il desiderio del figlio di cambiare sesso, amore per la musica, il protagonista che perde il lavoro e toni che spaziano dal drammatico al comico. E poi arrivano le immagini di Yamagata. Magari è tutto merito della magia cinematorgrafica, ma pare essere il luogo più sincero, rilassante e, banalmente, bello di questo mondo sventurato. Un luogo perfettamente a misura d’uomo, in cui poter vivere (e morire) pervasi da una sorta di armonia cosmica.
Si parla di Daigo Kobayashi, giovane violoncellista che d’un tratto si trova disoccupato. Decide così di abbandonare la città e ritornare al paese natìo con la (bellissma) moglie Mika. Qui, cercando un lavoro, si imbatte in un’offerta bizzarra che crede essere relativa ad un’agenzia viaggi. E’ in realtà un’agenzia che si occupa di necrocosmesi, ovvero della preparazione dei cadaveri per l’estremo saluto. Il lavoro non pare essere visto con molta simpatia dalla società giapponese e così Daigo decide di mantenere il segreto con moglie e conoscenti.
Accanto alla varietà di temi che vengono sviluppati all’interno dell’intreccio narrativo, tra cui la necessità di un ritorno al paese natio, l’onnipresente malinconia, la serena accettazione della morte, la reazione dei figli all’abbandono dei genitori, la reazione dei genitori che abbandonano i figli e l’attesa di una nuova vita, troviamo un ulteriore pregio (anche se molti non la pensano così), ovvero il forte appeal di quest’opera verso il pubblico di massa che gli ha valso e un oscar come miglior film straniero. Lo stesso premio che in altri tempi era stato vinto da 8 1/2, Amarcord e Ieri, oggi, domani, giusto per fare un paio di nomi che hanno a che vedere con la domanda che sto per fare.
Non sarebbe ora, ed è una domanda che mi sorge pensando al cinema italiano, di abbandonare chiasso, rutti e scoregge nelle commedie e cominciare a ripensare agli insegnamenti di Fellini e Monicelli? Dove sta scritto che un film che fa ridere (o sorridere) non debba far anche piangere, riflettere? Lo so, è una domanda retorica e pure stupida, esattamente uguale a chiedere: “Non sarebbe ora di produrre più Primitivo di Manduria e meno Coca-Cola?”.
Il trailer è una vergogna per il genere umano, vi lascio quindi con un piccolo spezzone musicale tratto dal film, che riesce a rappresentare meglio di centinaia di parole perché vada visto e che riesce a dimostrare in modo inequivocabile (nel caso ce ne fosse ancora bisogno) quale sia il peso della colonna sonora in un film.