domenica 26 maggio 2013

Tamburi ad ovest

Woodkid – The Golden Age
(Green United Music) - 2013

La prima recensione di un blog è un problema. Meglio partire con una pietra miliare o con un disco recente? Non sarebbe male partire dal mio disco preferito di sempre, ma questa è la mia prima recensione, non posso pensare di avere qualcosa da dire di abbastanza originale o intelligente da aggiungere ai fiumi d’inchiostro versati per Ok Computer. Per cui tagliamo la testa al gufo e partiamo dal disco che ho ora nello stereo.
Copertina lattea, booklet minimale, chiavi incrociate ovunque. Woodkid, alter-ego di Yoann Lemoine, cineasta francese, ha pensato bene di dare alle stampe il primo album di un progetto musicale che risale al 2011 e lo ha fatto sintetizzando una droga epica capace di assediare lo stereo per giorni, abbattendone le difese con un’orda di tamburi e, una volta insediata, di innalzare impenetrabili mura di archi.
L’assedio, nel mio caso è partito con una pietra (un singolo) lanciata da lontano. Moby Dick passa un brano  e io mi segno il nome  “Woodkid” in coda all’elenco di dischi da ascoltare. Una settimana dopo, cancellati gli altri nomi dalla lista, arrivo a monsieur barbetta e chiavi incrociate. Apro Grooveshark e cerco “The Golden Age”. Lo ascolto. Finisce. Lo ascolto ancora. Finisce. Lo ascolto un’altra volta. Appena finisco di lavorare corro a Feltrinelli e compro il disco. Tornando verso casa, ascoltando il disco per la quarta volta, ho pensato che fosse un bel disco, potente e che probabilmente l’avrei abbandonato la settimana dopo. Perché è troppo pop, troppo semplice, senza nulla di obliquo, tutto è troppo diretto e maledettamente pulito (e io odio i suoni puliti), la voce tra Antony Hegarty e Matt Berninger le melodie vicine alle suggestioni di Florence and the Machines, ai primi ascolti sembra una bellissima accozzaglia di elementi furbetti e alla moda. E allora perché dopo un mese lo sto ancora ascoltando e non accenna minimamente a stancarmi?

Probabilmente perché, come scritto sopra, sono i tamburi che abbattono le difese. E’ vero che il suono è pulitissimo, ma tutta questa limpidezza amplifica le pulsazioni primitive che percorrono le 14 tracce del disco.  14 fortezze sonore imponenti e imprendibili che sparate a volumi eccessivi risultano ipnotiche ed eccitanti. Non mi stupirei di ritrovarlo nello stereo tra un altro mese e nemmeno di trovarmi in soggiorno, dopo il crescendo di Run Boy Run, con il viso pitturato e un’ascia in mano.