Interscope, 4AD - (2006)
Difficilissima la scelta di quale disco scegliere, tra i due capolavori della band, per l’articolo di questa settimana. I disturbi e lo sperimentalismo di “Return to cookie mountain” o il trascinante soul di “Dear science”? Difficile, difficile. In questi casi faccio scegliere la pancia, che difficilmente ha dubbi: “Return to cookie mountain” il più vecchio, sporco e, allo stesso tempo, brillante tra gli album firmati dalla band di Brooklin, il disco del primo contatto.
Tutte le buone intenzioni presenti nel precedente Desperate Youth si concretizzano pienamente tra i disturbi di questo disco. Se tralasciamo l’alta ispirazione che ha portato ai testi e alle musiche di questo album, resta ancora un fattore che rende imprescindibile questo disco: il suono. Pieno, pulsante, sovraccarico di melodia e rumore, compatto. In molte delle tracce pare che sia filtrato attraverso una grattugia e, quando non viene chiamato direttamente in causa il rumore, la sovrapposizione e l’intreccio degli strati sonori danno comunque una netta impressione di caos in procinto di esplodere, che viene però sempre mantenuto sotto controllo.
Vediamo di fare un veloce viaggio tra le tracce per cercare di spiegare il mood del disco e i suoi principali punti di forza.
Si parte con una buona dose di pulsazioni, su cui entrano campionamenti di sitar e ottoni, a cui si sovrappongono, due voci e i sintetizzatori con un disturbo che sta tra il mare e i clacson di Nuova Delhi nell’ora di punta. Per cui, potremmo dire, che “I was a lover”, il primo brano, è ottimo per farci entrare nel regno stratificato e obliquo dei TV on the Radio. A metà canzone le cose cambiano e restano per un momento solo le percussioni e un pianoforte, qui prende il sopravvento il falsetto di Tunde Adepimbe (regista, musicista, attore, protagonista di “Rachel getting Married” per gli appassionati di Jonathan Demme). Hours prosegue con ritmi interessanti, lasciandoci riprendere dallo stordimento iniziale e facendoci rendere conto che siamo di fronte a gente che scrive pure testi di una bellezza devastante (ammetto che però sul lato testuale, tra i due dischi di cui parlavo sopra, vince Dear Science). E si arriva così bel belli a Province, che in questo momento sto riascoltando, n’attimo che appena smetto di piangere continuo l’articolo… ok, mi sono ripreso. Rendiamoci solo conto che qui dentro canta pure David Bowie (cioè il regazzino che faceva i cori in “Satellite of love” di Lou Reed, per capirci, non so se avete presente, pare abbia occhio per la musica). In Province di rumore c’e n’è veramente poco, è molto semplice, molto diretta, percussioni, quattro note di chitarra ripetute, aggiungete uno dei migliori desti del disco, un intreccio di voci da brivido prolungato, un ritornello che è un esplosione controllata di elettricità ed epicità romantica. Risultato: se questa canzone non è nella vostra playlist romantica, lasciatevelo dire, voi state male e siete persone tristi. E poi, quale modo migliore per riprendersi dall’overdose di romanticismo che partire con il pezzo successivo usando un suono che sfiora il rumore bianco? E continuare con ritmiche che Thom Yorke, probabilmente, sta ancora sbavando da quando ha sentito questo pezzo? E poi via altri strati, altri disturbi. Altre melodie nascoste e poi, tra i feedback, veniamo condotti all’energia tribale e alle schitarrate di quello che forse è il pezzo più rappresentativo e trascinante del disco: “Wolf like me”. Scariche di elettricità a volontà, strati su strati, versi che sconfinano nell’Hip Hop, aperture melodiche. Non sto ad impaludarmi oltre, il resto è del tutto allo stesso, altissimo, livello. E con la medesima varietà di umori e di commistioni tra generi. Mai una flessione, nessun riempitivo. Fino ad una “Wash the day” che ritorna ai suggerimenti indiani della prima traccia e chiude degnamente il disco.
Quindi, perché ascoltare il disco? Perché è uno dei dischi più impudicamente emozionanti degli ultimi anni. Perché è zeppo di suoni interessanti. Perché non c’è una singola nota banale dall’inizio alla fine. Per le melodie che fanno capolino dal fondo del rumore. Perché è musica fottutamente ispirata.
“Return to cookie mountain” non è un disco, è geologia… più scavi, più strati interessanti trovi e, sul fondo, trovi l’oro nero del grande soul.