venerdì 6 giugno 2014

Ucronia analogica

Jonathan Wilson – Fanfare
USA - (2013)

Un po’ che sono tremendamente lento, un po’ che ho bisogno di lasciar sedimentare le cose… arrivo a fine giugno a parlare di uno tra i migliori dischi dello scorso anno. Un lavoro che testimonia come, accanto a nuove proposte che consolidano o sperimentano il digitale, ci siano ancora spazio e grande ispirazione per chi si lascia tentare dal caro vecchio analogico.
Profondamente debitore dei suoni e delle atmosfere della west coast (Crosby, Stills and Nash su tutti), ogni brano di questo album esprime, più che un amore incondizionato per la california del ’67, un profondo studio messo a frutto nel 2013.

Jonathan Wilson. Lo guardi in faccia e hai già capito tutto, capello lungo, barba, chitarra in mano. Classe 1974, esperienza da produttore e sessionman, ha mostrato le sue capacità compositive nel primo disco solista (“Gentle Spirit” - 2011) lasciando che la sostanza sovrastasse un suono estremamente rarefatto e scarno.
In questo seguito, emerge prepotentemente anche la sua anima di produttore, con il risultato di unire una scrittura ad altissimo livello con un suono d’eccezione. Chiaramente la freschezza di “Gentle Spirit” è ridimensionata tra gli strati e i riverberi di “Fanfare”, ma il disco che ne esce contiene suoni che sarebbe riduttivo definire meravigliosi e, per tornare ai soliti Eroi, lascia le sensazioni di “If I could only remember my name”, pur essendo lontano dall’essere un clone della pietra miliare di Crosby.
E non è un caso che il nome del baffuto e scapigliato leader dei Byrds torni così spesso. Infatti, tra le celebrità che hanno contribuito alla realizzazione del disco, tra cui Josh Tillman (Fleet Foxes, Father John Misty) e Jackson Browne , in un paio di brani fanno capolino Crosby e Nash.
Ogni brano si prende il tempo di cui ha bisogno per svilupparsi appieno. L’unica vaga sensazione di riempitivo su 13 tracce si avverte in Fazon. Un pezzo a cavallo tra il divertente e l’irritante che resta appiccicato sanguisughescamente al cervello dal primo ascolto.
La radiofonicità di questo brano è comunque assolutamente scusabile considerando la qualità degli altri 12. Un pezzo su tutti, “Her Hair is Growing Long”: che dalle atmosfere rarefatte dei primi due minuti, lascia spazio a ritmi californiani sostenuti da cori sognanti. Oppure una Love to Love nei cui versi fa capolino il Dylan della Highway 65. I sette minuti introduttivi della titletrack, che risultano necessari e assolutamente non forzati, ci accompagnano nel mood del disco su visioni di archi e percussioni che dovrebbero far piangere di vergogna ogni singolo produttore discografico in attività negli anni ’80.
Rassicurante senza essere banale. Vario, ma non al punto di perdere la direzione e l’atmosfera, non è uno zombie della summer of love, ma musica viva e vibrante. Forse non sarà un disco di quelli capaci di generare una numerosa progenie, ma è certamente un degno erede della California di quegli anni che in molti oggi rimpiangono di non aver vissuto, capace di trasportarti in universo ucronico in cui un flower power, che domina il mondo e le coscienze, ha abbandonato le ingenuità per diventare adulto e consapevole.