giovedì 24 ottobre 2013

Sbiancarsi l’anima di nero

Matthew E. White – Big Inner
2012 – Spacebomb



Il mio sito di recensioni preferito definisce il genere musicale di questo disco come: psych-soul, jazz-blues, country. Che è un po’ come starsene zitti. Questo disco è soul, punto. Certamente non soul nello stretto senso comune, ma, senza dubbio, la capacità di colpire a livello emozionale è quella propria della grande musica afroamericana del secolo scorso.
Avessi ascoltato questo disco nel 2012, avrebbe lottato strenuamente con gli Alt-J per aggiudicarsi il titolo di disco dell’anno. Purtroppo sono incappato in questa perla solo nel corso del 2013 quindi, se permettete, potrei definirlo miglior disco del 2013, sempre che non esca qualcosa di meglio nei prossimi 2 mesi, ma la vedo molto dura. Se non vi fidate di me, andate a guardarvi i voti della critica su wikipedia, mi pare che il più basso sia un 8/10.
Partiamo con il dire che questo disco è tutto tranne che semplice, ha bisogno di alcuni ascolti per insediarsi nel cervello come un gatto acciambellato davanti al fuoco, ma poi, come il felino di cui sopra, sarà impossibile da spostare. La voce di Matthew E. White non è nulla più di un sussurro, il disco è quasi completamente acustico, eppure la capacità compositiva del pingue, barbuto e capelluto musicista americano rende questo disco di 7 tracce una delle opere più varie ed emozionanti degli ultimi anni. Ergo, per chiunque pensi che gli strumenti classici non abbiano più nulla di nuovo da dire, consiglio vivamente l’ascolto di questo disco.
Per fare un esempio, se le mie fonti non mi tradiscono, nel primo brano si parte con otto fiati, cori, tre sezioni ritmiche più chitarra e basso. E il resto del disco non vede variare molto gli strumenti. Non è raro che musicisti con poche idee ,quando vogliono rendere più vario un album, si affidino a frequenti cambi di suono per dare una vaga idea di originalità. Non è certamente il caso dell’occhialuto virginiano. La chitarra non ha in nessun momento il comando della situazione, ma contribuisce solo a impreziosire le tracce scomparendo spesso e la voce, lieve come una carezza, crea un abile contrasto con le esplosioni di cori e ottoni (indie-rockers, giù la testa e mettetevi a studiare). Basso e sezioni ritmiche hanno una capitale importanza nel sottolineare i cambi di umore tra i vari brani che scivolano via tra la morte del cugino, inni alla leggerezza e pene d’amore, regalando, dove ce n’è bisogno un trascinante retrogusto funky che eleva a musica universale le atmosfere dimesse e lo-fi che pervadono il disco.
I testi si commentano da soli, dall’inno all’amore che sopravvive al decadimento del corpo di One of these days, agli stupendi versi di Steady Peace (“Did you ever wonder where the night spends all its days? Relaxing in the shadows, baby, or stretched out in the haze? Or does it travel to the void of outer space?... Did you ever wonder where the morning spends the night? Sitting on the moon or curled up in a street light? Or is it hanging out in the sparkle of your eye?”). E Brazos, quel gospel a fine album in grado di commuovere qualunque miscredente, dovrebbe essere inserito ad honorem nel canzoniere dei classici nati sui campi di cotone.
Tirando le somme, etichetterei il signor White, prima di tutto, come un abilissimo miscelatore di influenze. E un’ottima dimostrazione di questo è che sono potuto tranquillamente arrivare a fine articolo senza alcun bisogno di citare riferimenti ad altri musicisti esistenti o esistiti. Non che non ci siano, chiaro, ma sono talmente tanti e talmente ben mescolati in qualcosa di nuovo da diventare assolutamente ininfluenti. Chiamatelo psych-soul, jazz-blues, country, chiamatelo indie-soul, chiamatela ottima musica, chiamatela come volete. Basta che ascoltiate questo piccolo grande gioiello autoprodotto.