lunedì 26 maggio 2014

Un padre, un figlio e uno Stato abbandonato.

Nebraska – Alexander Payne
USA 2013

Prima, il contesto:
siamo nel 2014, le multisale fremono per settimane all’uscita dell’ennesima ****anata acefala in 3D superHD, fotografie patinate e colori ipersaturati, che nemmeno le cartoline primaverili del Trentino…
Assieme a ciò di cui sopra, forse per un paio di sere, magari in un cinema, sempre nel 2014, ti esce un film in bianco e nero, il budget è un ventitreesimo circa rispetto a un episodio a caso degli imbecilli dei Caraibi, ed è talmente bello da dare moralmente fuoco a tutti gli occhiali per il 3D del mondo.

Si parte da Woody Grant, anziano alcolizzato che riceve per posta la comunicazione (in realtà solo pubblicitaria) di aver vinto un milione di dollari grazie ad un concorso. Né la moglie, né i figli, né la polizia che giorno dopo giorno lo recupera dai bordi delle strade, riescono a dissuaderlo dall’andare dal Montana al Nebraska, a piedi, per ritirare il suo premio. Suo figlio David, toccato dall’insistenza del padre, a cui non è rimasto quasi più nulla nella vita, decide di accompagnarlo in macchina. L’alcolismo del vecchio li porta ad un incidente di percorso, che, a sua volta, li conduce al paese d’infanzia dei genitori. Questa sarà l’occasione per incontrare la famiglia e i vecchi amici, tutti interessati a spartirsi un gruzzolo inesistente.
Da qui a dire: “Due balle, l’ennesimo film stracciavesti sulla vecchiaia e le sue malattie” il passo è breve, ma è pure sbagliato. L’anziano padre è più ingenuo che malato e la sua volontà ferrea di incassare il premio è dovuta a ben altro che al gretto egoismo o alla degenerazione cognitiva. Aggiungiamo che l’intento del film non è assolutamente quello di raccontare la condizione del padre, ma di raccontare da un lato l’evolversi del rapporto di un padre con un figlio, dall’altro mostrare per immagini uno stato di worker men (il Nebraska, appunto) messi in ginocchio dalla crisi. Uno stato in cui il sogno americano si è trasformato nel “grande vuoto americano”.
I problemi neurologici del padre, i rapporti burrascosi con la famiglia, non sono la storia, sono solo l’ambientazione, sono un dato di fatto, sono il set in cui un padre e un figlio si muovono e un territorio mostra sé stesso. Senza pesantezza. Senza dramma, c’è vita comune, e nella vita comune, in un Paese senza lavoro, senza istruzione, in cui vecchi amici e famigliari vogliono solo una parte del malloppo, c’è ancora posto per scherzare, per voler bene, per la bellezza di un viaggio su quattro ruote verso un orizzonte aperto che un figlio vuole regalare al padre.
I protagonisti, tra cui il territorio del Nebraska, sono persone qualunque superbamente interpretate, né belli, né brutti, né simpatici, né antipatici, solo profondamente umani (sì, pure il territorio).
Un’eccellente fotografia, anni luce dal 3D asettico, fa risplendere il grande schermo dandogli l’onore che merita. Ottima regia. Con quell’omaggio di pochi secondi (forse nemmeno voluto) alla storia del cinema: un camion passa vicino alla telecamera e si allontana su una strada di campagna, ricordando “L’arrivo di un treno alla stazione” dei fratelli Lumiére, ma al contrario. Grande Cinema.


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