(Constellation) - 2008
Ho ripensato meglio alla mia idea di usare il blog anche per parlare di opere fondamentali della musica e mi sono reso conto che non ha nessun senso che io mi metta a sbattere la testa contro il muro per tirare fuori qualcosa di originale su opere a proposito delle quali sono stati scritti volumi e volumi da critici professionisti. Ho quindi deciso che le pietre miliari non saranno altro che i miei personalissimi macigni. Cercherò quindi di scrivere più che altro di progetti, a mio avviso molto importanti, che meriterebbero più attenzione di quanta ne abbiano effettivamente ricevuta.
Tutto questo mi porta a parlare di un disco che ha già qualche annetto sulle spalle e che definire post-rock sarebbe riduttivo, non è sicuramente punk e il math-rock sarebbe decisamente fuorviante. Come potremmo definirlo allora? Io direi buona musica, vi basta? Se proprio volete etichettarlo, ciò a cui è forse più vicino è probabilmente il post-punk anche se in quanto a raffinatezza e profondità siamo totalmente su un altro pianeta.
Tutto questo mi porta a parlare di un disco che ha già qualche annetto sulle spalle e che definire post-rock sarebbe riduttivo, non è sicuramente punk e il math-rock sarebbe decisamente fuorviante. Come potremmo definirlo allora? Io direi buona musica, vi basta? Se proprio volete etichettarlo, ciò a cui è forse più vicino è probabilmente il post-punk anche se in quanto a raffinatezza e profondità siamo totalmente su un altro pianeta.
Fondamentale per la scelta dell’album in questione è la prima traccia (beh, ad essere sinceri la tredicesima, visto che le prime 12 sono un unico fischio che conduce l’ascoltatore al fatidico numero 13). Questo brano si apre con il mantra “1000000 died to make this sound” che si ricollega perfettamente alla mia volontà di recensire stupendi lavori osannati meno di quanto meriterebbero. Il concetto attorno a cui ruota il testo è che non ci può essere un sound che non sia basato su tutto ciò che è stato fatto in passato e che, spesso, secondo l’interpretazione che ne dà l’autore Efrim Menuck in un’intervista (link), non ha ricevuto l’attenzione che meritava. Ovvero, parafrasando, la musica di oggi (e questa non fa eccezione) produce frutti innestandosi sui tronchi morti della musica passata.
Ma veniamo alla band e al disco. Il processo mi ha portato ad imbattermi in loro è stato abbastanza tortuoso. Tutto parte da un ottimo film horror: 28 giorni dopo. All’inizio della pellicola vediamo un Cillian Murphy appena uscito dall’ospedale vagare per una Londra deserta accompagnato da una colonna sonora che mai mi sarei aspettato in un film sui morti viventi. Un brano lunghissimo e splendido che, a fine pellicola, mi ha spinto alla ricerca degli autori. Ricerca piuttosto facile. Il brano era di un gruppo anarco-post-rock Canadese dall’oscuro nome di “Godspeed you! Black Emperor” (no, il punto esclamativo non è un errore). Dopo essermi innamorato del loro primo album dal bizzarro nome di “F#A#∞” (sì, è giusto pure questo), vengo a sapere dal Mucchio Selvaggio dell’uscita di un album di una costola dei Godspeed dal quantomeno fantasioso nome di “Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra & Tra-La-La Band” (non voglio sapere come si chiamano i loro figli). In particolare, e già qui capirete che non stiamo parlando del solito power trio, i tre membri dei Godspeed a fondare i Silver Mt.Zion sono: Efrim (chitarra, piano, voce), Sophie (violino) e Thierry: (contrabasso).
Ho scelto questo, tra i 6 LP della band di Montreal, per la potenza che sprigiona, per l’equilibrio e la capacità di puntarti il caos al cuore e spararlo senza pietà. Parlo di equilibrio non a caso, perché in questo disco convivono in totale armonia: rumore e melodia, crescendo potentissimi e pianissimo al limite dell’udibile, testi struggenti e irosi, archi e distorsori, aperture al math-rock e pulsioni primitive, blues e sperimentazione. Risulta abbastanza evidente che, senza equilibrio, ci si troverebbe di fronte ad un blob sonoro inascoltabile. Invece il risultato ha un sound raffinato e originale, forse non così distante dai lavori dei Godspeed, ma a cui la voce disperata di Efrim fa raggiungere nuove ed elevatissime vette, sfruttando anche testi che qui rasentano la perfezione.
Tenendo conto che non riesco a trovare un brano della loro intera discografia che non meriti attenzione, i quattro brani di “13 blues for 13 moons”, che vanno dai 13 minuti di "Black Waters Blowed/Engine Broke Blues" ai quasi 17 della title track, puntano allo stomaco con melodie struggenti cavate con sudore dalla totale dissonanza e dal caos, ti avvolgono in un mondo sonoro desolato e maledetto eppure vivissimo, crudele e pieno d’amore (un anno con 13 lune è infatti latore di sventura). Un mondo in cui ci si sente parte di una popolazione sconfitta e solidale che vuole tornare a combattere e vivere “costruendo rottami di treni nel sole che tramonta”. Alla guida di questo popolo di derelitti c’è un profeta folle che sputa poesia con un rantolo punk a carica emozionale altissima.
Non è un disco facile, parliamoci chiaro, anche se le aperture strumentali e i crescendo quasi-sinfonici sono abbastanza immediati. Il motivo per cui necessita di tempo per decantare è che solo dopo numerosi ascolti si riescono ad apprezzare e a cogliere i dettagli nascosti nel rumore e negli intrecci tra gli strumenti elettrici e classici. Come recita la ragione sociale del gruppo, qui si tratta di montagne d’argento: un susseguirsi di voragini tetre in cui il freddo penetra nelle ossa, e vette dove l’aria è limpida e il sole scalda la pelle, vette che necessitano di tempo e sacrificio per essere raggiunte. Quello che non troverete in questo disco sono la noia e la ripetitività della pianura.
Ma veniamo alla band e al disco. Il processo mi ha portato ad imbattermi in loro è stato abbastanza tortuoso. Tutto parte da un ottimo film horror: 28 giorni dopo. All’inizio della pellicola vediamo un Cillian Murphy appena uscito dall’ospedale vagare per una Londra deserta accompagnato da una colonna sonora che mai mi sarei aspettato in un film sui morti viventi. Un brano lunghissimo e splendido che, a fine pellicola, mi ha spinto alla ricerca degli autori. Ricerca piuttosto facile. Il brano era di un gruppo anarco-post-rock Canadese dall’oscuro nome di “Godspeed you! Black Emperor” (no, il punto esclamativo non è un errore). Dopo essermi innamorato del loro primo album dal bizzarro nome di “F#A#∞” (sì, è giusto pure questo), vengo a sapere dal Mucchio Selvaggio dell’uscita di un album di una costola dei Godspeed dal quantomeno fantasioso nome di “Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra & Tra-La-La Band” (non voglio sapere come si chiamano i loro figli). In particolare, e già qui capirete che non stiamo parlando del solito power trio, i tre membri dei Godspeed a fondare i Silver Mt.Zion sono: Efrim (chitarra, piano, voce), Sophie (violino) e Thierry: (contrabasso).
Ho scelto questo, tra i 6 LP della band di Montreal, per la potenza che sprigiona, per l’equilibrio e la capacità di puntarti il caos al cuore e spararlo senza pietà. Parlo di equilibrio non a caso, perché in questo disco convivono in totale armonia: rumore e melodia, crescendo potentissimi e pianissimo al limite dell’udibile, testi struggenti e irosi, archi e distorsori, aperture al math-rock e pulsioni primitive, blues e sperimentazione. Risulta abbastanza evidente che, senza equilibrio, ci si troverebbe di fronte ad un blob sonoro inascoltabile. Invece il risultato ha un sound raffinato e originale, forse non così distante dai lavori dei Godspeed, ma a cui la voce disperata di Efrim fa raggiungere nuove ed elevatissime vette, sfruttando anche testi che qui rasentano la perfezione.
Tenendo conto che non riesco a trovare un brano della loro intera discografia che non meriti attenzione, i quattro brani di “13 blues for 13 moons”, che vanno dai 13 minuti di "Black Waters Blowed/Engine Broke Blues" ai quasi 17 della title track, puntano allo stomaco con melodie struggenti cavate con sudore dalla totale dissonanza e dal caos, ti avvolgono in un mondo sonoro desolato e maledetto eppure vivissimo, crudele e pieno d’amore (un anno con 13 lune è infatti latore di sventura). Un mondo in cui ci si sente parte di una popolazione sconfitta e solidale che vuole tornare a combattere e vivere “costruendo rottami di treni nel sole che tramonta”. Alla guida di questo popolo di derelitti c’è un profeta folle che sputa poesia con un rantolo punk a carica emozionale altissima.
Non è un disco facile, parliamoci chiaro, anche se le aperture strumentali e i crescendo quasi-sinfonici sono abbastanza immediati. Il motivo per cui necessita di tempo per decantare è che solo dopo numerosi ascolti si riescono ad apprezzare e a cogliere i dettagli nascosti nel rumore e negli intrecci tra gli strumenti elettrici e classici. Come recita la ragione sociale del gruppo, qui si tratta di montagne d’argento: un susseguirsi di voragini tetre in cui il freddo penetra nelle ossa, e vette dove l’aria è limpida e il sole scalda la pelle, vette che necessitano di tempo e sacrificio per essere raggiunte. Quello che non troverete in questo disco sono la noia e la ripetitività della pianura.
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